LA LETTRICE
- 7 set
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Carmelo Bene non era umano.
Nel gotha dei grandi italiani del Novecento, per me siede accanto a personaggi come Pirandello, Guglielmo Marconi e Federico Fellini, né di più, né di meno.
Mio padre, con l'aria di chi proponeva una scampagnata sul pianeta Marte, una sera mi disse: “Andiamo a vedere questo Carmelo Bene, solo io e te, non la mamma e neanche i tuoi fratelli, solo noi due”.
Fu una richiesta strana, atipica, sorprendente, fatta da un uomo che non sapeva niente di teatro, figuriamoci di questo geniaccio del Salento, di cui mi chiedo ancora oggi, esattamente trentasei anni dopo, come facesse a conoscerne l’esistenza.
Quell’incontro, vederlo a teatro, fu una delle cose più esaltanti della mia vita, un’esperienza quasi mistica. A mio padre, purtroppo, non piacque molto.
Eh sì che sette anni prima, guardando Sanremo alla prima apparizione di un certo Vasco Rossi, un cantante che non cantava, ma biascicava delle parole, tra le quali si capiva solo “Vado al massimo, massimo, Messico” fu tra i pochissimi ad intuire che quello era il futuro della musica italiana. Un visionario, un profeta, un pioniere. Mio padre, che tra i suoi gusti musicali aveva niente di meno che Fred Bongusto e Peppino Di Capri, capì che quello non era un cantante come gli altri, ma una piccola rivoluzione.
In quel periodo mi ricordo che ogni tanto ridendo canticchiava “Massimo, Messico, vado al massimo, vado a gonfie vele!”
Ma questa volta no, non riconobbe la grandezza di Bene in quella serata al teatro Carcano nel febbraio del 1989.
Quando ti trovi davanti un genio, un essere superiore, l’ammirazione cede il passo al piacere del momento e per me fu così. Capivo poco di quello che stavo vedendo, ma ne intuivo la grandezza con altri sensi, che non erano la ragione e la comprensione.
Era come stare a guardare una lavatrice, impostata sulla centrifuga, che gira alla velocità di un motore di un jet, una cosa incomprensibile, ma stupefacente.
In scena oltre a lui c’era una certa Raffaella Baracchi, al tempo sua attuale moglie, qualche anno dopo essere stata Miss Italia.
La ricordo bene, perché ad un certo punto si spogliava completamente in scena, e come dimenticarlo! Nudo integrale!
Ma poi si scopriva che quello era un costume di lei nuda, sotto al quale aveva un altro costume di lei nuda e quando per la terza volta ti mostrava la sua vera nudità totale, non sapevi più se credere che quello fosse realmente il suo corpo o un altro costume: un malefico trucco di Carmelo, che naturalmente era anche regista, oltre che attore.
Fu un piccolo, grande insegnamento, “Non credere a ciò che appare”, sembrava dirmi, “spesso è un inganno, c’è dietro dell’altro…”
Lo vidi a teatro una sola volta e fu una grande stupidaggine, perché quando si trova dell’oro per strada, sul ciglio di un marciapiede inciampando, bisognerebbe dargli il giusto valore, invece, visto che la scoperta è casuale, non abbiamo mai l’intelligenza per farne una ragione di vita.
Però ho visto moltissime interviste di lui e soprattutto ne ricordo una dove faceva un’affermazione piuttosto strampalata: sosteneva che lui amava i teatri vuoti con pochissime persone e che non gli interessavano i grossi numeri.
Avere anche solo una persona che ti ascolta veramente era il suo traguardo, come artista, ma forse ancora di più come essere umano.
“Dobbiamo risvegliarli dal torpore in cui sono, uno ad uno, non tutti insieme” diceva.
E anche questa è stata una grande lezione.
Molti anni dopo andai a vedere degli amici teatranti.
Invitai una cara amica, una persona importante per me e decisi di dedicare quella serata della mia vita per andarli a vedere.
Ci demmo appuntamento, ci trovammo fuori a scambiare qualche chiacchera e poi via in sala ad assistere alla rappresentazione.
In quell’occasione scoprii la differenza tra professionismo e il dilettantismo, che di solito è maniera, poco di più.
Tra platea e galleria si potevano contare forse 10, 15 persone, non di più.
Ad un certo punto, ad inizio spettacolo, uscì proprio l’attore che conoscevo e con una fasulla aria da tragedia, disse queste precise parole che ancora oggi ricordo alla perfezione: “Purtroppo visto il poco pubblico presente non ce la sentiamo di fare lo spettacolo, all’ingresso vi verrà rimborsato il biglietto, ci scusiamo per il disagio”.
E così fu, niente spettacolo!
Mi misi a guardare in alto come ad aspettare che il buon Carmelo saltasse fuori ed iniziasse a gridare “Cani, siete solo dei maledetti cani rognosi!”, ma purtroppo era già morto da qualche anno e non accadde. Così il sipario calò su una delle più grandi dimostrazioni di mancanza di rispetto che avessi mai visto.
Fu per me imperdonabile e ancora oggi non me ne capacito.
È l’arte un atto di vanità che ha bisogno di numeri per esistere o forse è altro?
Ma vi immaginate un ristorante che apre, arriva un solo cliente e ad un certo punto il cameriere si avvicina al tavolo e vi dice “Ci scusi, oggi non lavoriamo per un cliente solo. Ci aspettavamo più gente”.
Potete solo immaginare che possa accadere? No, perché un cliente, anche solo uno è SACRO, con la S, la A, la C e la R e la O, maiuscole! Come dovrebbe esserlo uno spettatore.
Ma noi oggi viviamo nell’era dei follower, dei like, dove le persone non esistono più, ci sono solo i numeri, indipendentemente da chi sono e spesso non sono reali neanche quelli.
Carmelo Bene mi porta a pensare ad un’altra persona, si chiama Lori. Da Carmelo e Lori.
Due persone che se si fossero conosciute, sarebbero andate d’accordissimo.
Lori mi ha raccontato che lei ha sempre amato leggere e un giorno ha scoperto che un suo amico, di cui non ha voluto darmi il nome, scriveva delle cose che le piacevano molto.
Avrei voluto sapere chi fosse, ma lei niente, come una bambina capricciosa mi ha detto: “No, il nome no, non te lo dico, ti dico solo che vive in un posto di mare”.
Ho provato nel cercare di scoprire chi fosse quello scrittore, se poi fosse veramente uno scrittore o qualche sfigato che buttava giù qualche pensiero, qualche idea abbozzata, ma visto che ho sempre pensato più che bene di Lori, immagino che quello fosse uno in gamba.
Ma niente, non l’ho trovato. Lei non rispondeva alle domande dirette che le facevo.
Poi un giorno, mi ha detto una frase che capii solo a metà: "A me piace leggerlo, perché siamo in pochi a leggerlo." In quel momento, mi è sembrata strana. Poi, un'altra volta, ha aggiunto: "A volte penso di essere l'unica lettrice che ha, ma so che non è così, però siamo in pochi"
A quel punto, il cerchio si è chiuso.
Il suo pensiero mi ha riportato al buon Carmelo, a quando disse che i teatri vuoti, con poche persone, erano i suoi preferiti. In realtà, Carmelo Bene aveva folle di spettatori, ma lui, alla fine, lavorava per il singolo, non per quelle masse di annoiati che andavano a teatro solo per snobberia.
Chissà se l'amico di Lori avrebbe mai avuto un grande pubblico.
O forse il suo vero obiettivo era un altro: arrivare al cuore di qualcuno.
Magari non di tanti. Anche solo, di un'unica lettrice.






Non lo sapevo, che splendido spunto di riflessione!
Grazie come sempre, Max...
Genio e sregolatezza: Carmelo Bene, il ‘pazzo’ che derideva i ‘normali’. L’artista che sfidava l’arte, faceva dell’eccesso la sua norma. Attore che usava l’intelligenza come oggetto di scena. Un istrione. Se dovessi definirlo in qualcosa di tangibile, direi… il cubo di Rubik.