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A TAVOLA A PARLAR DI GUERRA

  • 2 giorni fa
  • Tempo di lettura: 14 min

foto e testo di Max Chianese
foto e testo di Max Chianese

Mario se la rideva alla grande, uno sbellicarsi sguaiato che rimbalzava sulle pareti di quel posto dalle sembianze inaspettate. Intanto guardava sotto di lui.

Li osservava con attenzione, in tutta quella ipocrisia non c’era niente di nuovo, tutta quella melassa di finto perbenismo non lo sorprendeva affatto.

Certo, in un’altra condizione se la sarebbe presa a male o avrebbe provato dolore o pena per quelle anime perse, svendute al supermercato del qualunquismo, ma sapeva con una certezza assoluta che cercare uno spillo in una balla di fieno era come fare scuola guida ad un orso ubriaco dal troppo miele, una impresa assurda, destinata al fallimento.

E quindi perché farsi il sangue marcio per loro? Perché provare dispiacere?

La sua era una posizione privilegiata. Era come stare sulle montagne russe dell’universo e vedere il mondo che ti passava accanto, ad una velocità frenetica.

Poteva vedere tutti loro, ma loro non lo vedevano.

Avete mai provato a guardare veramente chi sfreccia su un ottovolante? Non lo vedi veramente, l’occhio non riesce a registrarlo.

Per lui invece era come guardare un documentario della BBC sui predatori più temibili in circolazione, però dalla chaise longue del proprio salotto. A distanza.

Appena arrivato in quel posto gli avevano detto: “Nell’attesa della cena, con un ospite speciale che ti aspetta, se hai qualche domanda, falla pure, giusto per passare il tempo e non annoiarti”.

E così si ritrovò con una curiosità puerile, avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa, ma le sue domande andarono in una direzione imprevista, si ritrovò come un bambino pronto a smontare un giocattolo nuovo.

Decise di togliersi qualche dubbio.

 

Elvis, Jim Morrison e Michael Jackson erano morti veramente o era tutta una messinscena?

 

Era sempre stato un uomo sveglio d’intelletto e quando comprese che il posto in cui era giunto era proprio Quello, queste furono le prime cose che gli vennero in mente. Adesso poteva saperlo.

Nel mentre, iniziava a chiedersi chi fosse quell’ospite speciale che lo aspettava, ma poi volle sapere di quei tre che tanto aveva amato in vita.

 

Per primo, chiese del re del rock.

Elvis era nato nel 1935, quindi nel 2025 avrebbe festeggiato i 90 anni. Ed era ancora vivo e vegeto.

O meglio… vegeto, dipendeva dai giorni.

“Ma dove vive?”, “Posso vederlo?” chiese Mario impaziente come un gatto davanti ad una scatoletta di tonno chiusa.

“Certo” gli fu risposto.

Elvis viveva in un luna park dismesso alle porte di Milano, per precisione all’Idroscalo.

Ogni tanto riattaccava la spina, ripartivano le luci e tutto ritornava lampeggiante come un tempo, fari stroboscopici, musica a palla che avrebbe fatto risuscitare anche i morti (un modo di dire adatto all’occasione), chiasso di adulti e bambini, un immenso rave party per le zanzare del circondario.

Del luna park originario aveva tenuto solo alcune attrazioni: le montagne russe, il tunnel degli orrori e il labirinto degli specchi, quest’ultimo perfetto per riflettere sulle sue mille sfaccettature artistiche e oramai anche sulle troppe rughe avvizzite. Erano le “specialità della casa” che non aveva voluto dismettere, pur constatando che la gente ne era molto poco interessata negli ultimi vent’anni, se non per un fattore nostalgico o per far vedere ai figli come si divertivano quando era giovane.

Nonostante i novant’anni lo facessero apparire come un pacco di Bastoncini Findus lasciati al sole non aveva mai perso la sua ispirazione nello scrivere musica.

Puntuale come un orologio svizzero a cucù, ogni sei mesi usciva dalla sua casetta e portava una busta alla cassetta delle lettere.

Aveva con la Sony un contratto in esclusiva, ogni semestre, il primo di giugno e il primo di dicembre, doveva consegnare parole e musica di un brano che sarebbe diventato leggendario.

Il contratto aveva una unica semplice clausola, ogni volta il suo nome come autore doveva cambiare.

Nel 1984 scrisse “Billie Jean” portata al successo da Michael Jackson, nel 1989 “Don’t worry be happy” che cantò Bobby McFerrin, personaggio talmente misterioso che scomparve dopo quell’unica canzone non sopportando di non aver mai conosciuto l’autore del suo brano più celebre.

E poi ne scrisse molti altri, tutti successi naturalmente, fino ad arrivare a creare il mito di Taylor Swift, personaggio totalmente creato dall’intelligenza artificiale, di cui tutti conoscevano il nome, ma nessuno ricordava una specifica canzone.

Unico passatempo che si era ritagliato il buon Elvis the Pelvis era nel cuore pulsante (si fa per dire, dato lo stato di abbandono generale) della sua amata attrazione: il tunnel degli orrori.

Non aveva mai destato ombre di curiosità quanto accadeva, perciò da tanti anni continuava a ripetere quel numero. Forse i milanesi erano troppo avvezzi agli orrori quotidiani del traffico e delle bollette per farsi impressionare da qualche fantasma di cartapesta e da vampiri con la dentiera traballante.

Ma in mezzo a quegli spettri ululanti, lupi mannari, demoni che la gente incontrava nel percorso, ad un certo punto, con dei giochi di luce degni del Cirque Du Soleil appariva lui.

Vestito come ai bei tempi con il suo abito bianco scintillante e pieno di lustrini.

E anche se quasi centenario ormai, le movenze e il bacino, miracolosamente rinvigorite da una doppia protesi in titanio forgiata da un fabbro elfo in pensione, mantenevano quel guizzo, quel fremito tellurico che aveva fatto impazzire le oramai nonnine di mezzo mondo.

Con la sua chitarra salda al collo, intonava, sempre live l’inizio di “Hound Dog/Don’t be cruel”, solo la prima strofa e poi scompariva nel buio con una risata fragorosa, quella registrata però.

Mario sorrise soprattutto nel vedere Elvis quando faceva quel numero, talmente era denso di una tenerezza struggente.

 

Il buon Jim Morrison invece era morto, anche se la versione ufficiale propinata al globo terracqueo era un brodo di menzogne, insipida come un pezzo di bresaola scondita il giorno di Natale.

La Versione Reale, quella con la V e la R maiuscole, restava irraccontabile.

D’accordo con l’amata compagna Pamela, prima di quel fatidico 3 Luglio del 1971, giorno in cui il mondo apprese della sua "uscita di scena", Jim iniziò a vagare per tutti gli Stati Uniti organizzando concorsi per trovare un suo sosia e dopo circa sette mesi, cinque concorsi e personaggi improbabili (uno somigliava più a un bassotto con la parrucca), fu sicuro di aver trovato l’uomo giusto: un certo Stewart Costance, di professione rappresentante di aspirapolveri.

Come premio il buon Stewart ricevette una vacanza “all inclusive” dal vero Jim e così trascorsero una vacanza insieme a Malibù.

Subito dopo un concerto, Jim volle verificare l’attendibilità di quella somiglianza.

Fece uscire l’uomo dall’uscita principale del Chandler Pavillon e una massa di assatanati si buttarono sul poveretto con la voracità di un branco di piranha affamati.

Funzionava, la somiglianza era perfetta.

Così fu molto semplice pianificare il resto.

I due amanti, Jim e Pamela, lo invitarono a casa loro per una cena a base di aragoste e mango e proprio nel frutto esotico misero un veleno da stroncare un brontosauro. Stewart schiattò, senza lamentarsi neanche tanto.

Così fu semplice, nel loro appartamento di Parigi, organizzare il tutto, misero l’uomo dentro una vasca da bagno, un po’ di pianto fasullo della donna, l’arrivo di poliziotti poco lucidi, come solo i poliziotti francesi sanno esserlo e il gioco era fatto, senza neanche il bisogno di un effetto speciale particolarmente costoso.

Ma il vero Jim dov’era?

Tutti, i vicini ficcanaso con le tende perennemente scostate e i fan in lutto che assediavano l'uscio come zombi affamati di autografi, lo avevano visto rientrare nel suo appartamento parigino.

Ma nessuno sapeva che da un’intercapedine dell’armadio in camera da letto aveva fatto costruire un passaggio da agente segreto, un tunnel clandestino che portava all’appartamento al piano di sotto, affittato da una sua società offshore.

E quindi, mentre tutti piangevano e si disperavano, lui se ne stava beato nel soggiorno dell’altro appartamento a guardarsi quiz televisivi e televendite, che erano sempre state le sue vere passioni segrete.

Jim Morrison, l'anima tormentata che aveva declamato poesie al chiaro di luna e urlato contro le convenzioni borghesi, era stanco di avere tutte quelle responsabilità sulle spalle e non vedeva l’ora di ritirarsi su qualche isoletta delle Antille a passare il resto della sua vita cazzeggiando e guardando tramonti da cartolina.

Il loro piano, architettato nei minimi dettagli durante lunghe notti parigine a base di vino rosso e caprice des dieux, prevedeva che dopo esattamente quindici giorni si sarebbero ritrovati giù nei box del condominio, Jim si sarebbe nascosto sotto dei teli e sarebbero partiti con un volo privato fornito dal loro amico David Bowie.

E così, dopo due settimane di binge watching totale e pizze d’asporto, il buon Jim prese l’ascensore e si diresse nel seminterrato dove era parcheggiata la loro Land Rover color blu cobalto.

Pamela, nonostante non avesse mai superato l'esame di guida della patente (pare avesse investito uno dei primi lavavetri magrebini arrivati a Parigi, durante una lezione), si sentiva stranamente sicura di sé.

Ma uscendo a velocità folle in retromarcia dal box investì e frantumò tutte le ossa dell’amato Jim, come un sacchetto di grissini calpestato da un gigante.

Il poveretto, con un ultimo filo di voce, emise le sue ultime parole, accennando ad una delle sue canzoni più famose, “This is the end” e poi chiuse gli occhi.

Mario fu molto divertito anche da questa storia, soprattutto immaginandosi Bowie a bordo del suo jet privato ad aspettare il mitico Jim che non sarebbe mai arrivato.

 

Ma il vero piatto forte, la portata principale, doveva ancora arrivare: la Verità su Michael Jackson, il re del pop!

Il genio della moonwalk, invischiato in un pantano di debiti e cause fatte contro di lui, investì diversi milioni di dollari in un piano diabolico subito dopo la sua finta morte.

Era un fatto risaputo che lui amasse i bisturi, la chirurgia estetica, con quel musetto da pechinese incazzato che si era fatto negli ultimi anni, era forse la sua seconda attività più continuativa.

Senza pensarci due volte, sborsò un patrimonio al chirurgo Greg Kessel per un restyling totale.

Doveva cambiargli completamente i connotati e anche il colore della pelle, riportandola al colorito iniziale, pentendosi di quello sbiancamento che aveva deciso di fare senza alcuna logica.

Adesso doveva trovare un nuovo nome, non poteva più chiamarsi Michael. Doveva trovare qualcosa di fresco, di inedito, con un retrogusto di antichità e un pizzico di esotismo e si mise a fare una ricerca sull’etimologia del nome che avrebbe scelto.

Sua madre Katherine gli aveva detto, quando lui iniziò ad avere quel successo planetario che tutti conosciamo, che era stato una “benedizione” per il mondo (e, soprattutto, per le casseforti di famiglia, che si erano gonfiate a dismisura, garantendo una vita di lussi sfrenati per almeno sette generazioni di Jackson).

Ed essendo loro di religione ebraica andò a vedere che “benedizione” si traduceva anticamente con la parola Barak. Proprio un bel nome!

Scavando tra polverosi archivi e consultando improbabili medium, aveva scoperto un'inaspettata parentela irlandese con gli O'Bama, una stirpe di lontani cugini con un cognome che suonava come una sinfonia celestiale. “Obama!

“Un nome che profuma di whiskey e ballate tristi, perfetto per un re del pop in incognito!" disse fra sé e sé.

E così il suo nuovo nome divenne Barack Obama, ma la questione cruciale adesso era: cosa fare del resto della sua esistenza?

Non poteva certo mettersi a scrivere canzoni fingendosi un altro autore come qualcun altro aveva fatto e fortunatamente per lui non aveva compagne dalla pessima guida, così, come suo solito, ebbe un’idea da vero megalomane. “Voglio fare il Papa”, disse!

Sentendo queste parole Mario trasalì ed iniziò ad avere una crisi di singhiozzo, talmente violenta da far tremare le pareti del limbo dove si trovava.

Ma il buon Michael/Barack capì da subito che in fondo era una carica molto fittizia, nessuno avrebbe dato peso alle sue parole poi quelle tonache bianche lo avrebbero fatto sembrare un fantasma e non avrebbe avuto senso il suo ritrovato color marroncino!

Così optò per una seconda scelta, “Diventerò il presidente degli Stati Uniti D’America”.

E così fece, anche se ogni tanto faceva spegnere le telecamere dello studio ovale, giusto per fare qualche passo di danza.

Sua moglie Michelle, in realtà fu interpretata da sua sorella Janet Jackson che dopo la finta morte del fratello smise di fare la cantante, ammettendo di non aver mai avuto una voce per poter cantare veramente.

Nei due mandati che Michael Jackson fece alla Casa Bianca decise ben poco, erano naturalmente altri a fare tutto.

In fondo, lo avevano eletto solo per il colore della sua pelle, un simbolo di progresso e di cambiamento (apparente) in un mondo che, in realtà, rimaneva saldamente nelle mani degli stessi burattinai di sempre.

E niente era più giusto, in quei tempi fasulli che avere un presidente afroamericano. Bastava quello!

Capitò anche, che un giorno decisero di dargli il Premio Nobel per la pace e questo fu il capolavoro dell’Occidente, un premio del genere all’uomo che aveva fatto bombardare Siria, Libia, Iraq, Afghanistan, Yemen, Somalia e Pakistan, ma si sa quei morti hanno sempre avuto poco valore per il mondo che conta.

A nessuno del mondo civilizzato importavano niente.

Mario, si mise a ripensare a quel fatidico incontro del 2015, quando il presidente nero era venuto a San Pietro a fargli visita e si sentì pervaso da un brivido di rivelazione. Aveva sempre avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di strano, dell’altro in quell'uomo, un'aura di mistero e di talento nascosto. Ma mai, nemmeno nei suoi sogni più folli, avrebbe immaginato di trovarsi di fronte al Re del Pop in persona, camuffato da presidente degli Stati Uniti!

 

Poi una voce ovattata, proveniente da un altoparlante nascosto chissà dove, ruppe il silenzio con un annuncio degno di un centralino intergalattico: "Il signor Mario è gentilmente pregato di presentarsi al termine del corridoio. La cena sarà servita a breve. Si prega di non disturbare gli altri ospiti con domande esistenziali ad alta voce."

 

L’uomo non dimostrava più i suoi ottantotto anni, sembrava miracolosamente ringiovanito con un’agilità da trentenne. Così si diresse verso il lungo corridoio che sembrava essere quello di un centro commerciale.

Travi giallo-arancio si innalzavano ai lati, sorreggendo una struttura che strizzava l'occhio a un design avveniristico, ma che non riusciva a nascondere del tutto i negozietti che si affacciavano ai lati, un mix bizzarro di "Emporio Galattico" e "Mercatino dell'Usato di Andromeda".

“Andiamo a vedere cosa c’è in fondo al tunnel” pensò e s’incamminò con passo deciso.

Un solo pensiero, un'unica, folle certezza, gli martellava nel suo cranio: "Stasera ceno con Dio in persona! Che onore! Speriamo che non sia un fissato del veganesimo, ho proprio voglia di Lomos con y sin cordón, il pregiato filetto, della sua amata Argentina”.

Arrivato in fondo al tunnel sulla destra vide una scritta “Trattoria dell’Altissimo” e pensò al senso dell’umorismo che aveva il Suo Signore, un qualcosa che viene raccontato poco nei libri.

Entrò e varcata la soglia, Mario fu accolto da un cameriere in livrea, impeccabile come un pinguino reduce da un corso lungo tre secoli di bon ton celestiali.

“Mi stanno aspettando, mi chiamo Mario” disse anticipando il ragazzo vestito di tutto punto.

“Lo so, lo so, prego” gli rispose, “è il tavolo là in fondo, il numero tre, come la trinità” disse sogghignando il giovane.

Così Mario arrivò al cospetto di un uomo dalla folta barba, che sembrava appena uscito da una di quelle pubblicità di whisky scozzese, in cui i protagonisti contemplano la vita davanti a un camino scoppiettante. L’uomo lo guardò e gli sorrise con una dolcezza disarmante.

Tutto ciò che segue fu ciò che i due si dissero.

 

MARIO

(avvicinandosi ad una sedia di fronte all’uomo barbuto)

Posso sedermi qui?

 

L’UOMO CON LA FOLTA BARBA

Ma certo, si accomodi, si accomodi, lei si può sedere, dove vuole, qui non ci sono gerarchie, siamo tutti uguali di fronte all'eternità...

 

MARIO (sedendosi)

Vado diretto al punto, sono un uomo di poche parole e devo chiederglielo subito, lei è Dio?

 

L’UOMO CON LA FOLTA BARBA

Dio? Mi spiace deluderla, ma io mi chiamo Gino.

 

MARIO

Gino? Ha detto Gino? (pensando tra sé e sé) Possibile che anche l'Onnipotente abbia un nome così... normale? Sarà mica un altro scherzo dei suoi?

 

L’UOMO CON LA FOLTA BARBA

Eh sì proprio Gino, anche se il mio nome di battesimo è stato Luigi, ma tutti mi hanno sempre chiamato Gino, mi chiami così anche lei.

 

MARIO

Certo Gino, molto piacere, non mancherò di farlo.

 

L’UOMO CON LA FOLTA BARBA CHE SI CHIAMAVA GINO

(appoggiandosi allo schienale della sedia, con un sospiro)

Senta Mario, lei lo sa che io sono in questo posto da quattro anni? E lei, che è arrivato oggi, ha ben dodici anni più di me. Le sembra giusto? È questa la giustizia divina di cui tanto parlano?

 

Mario si sentì spiazzato da quella domanda così diretta e così… umana, si stava rendendo conto che quello non era decisamente Dio, ma veramente Gino.

 

MARIO

Solo il Nostro Signore sa cosa è giusto e cosa no. C’è sempre un disegno più grande di noi che non possiamo comprendere…

 

GINO

Ma quale disegno? (rispose alzando la voce) Con tutta la verdura che mangiavo! Avevo il colesterolo basso, i trigliceridi perfetti e guarda te dove sono finito!

La sua mi sembra una risposta un po’ troppo semplicistica, anche se capisco che a volte è solo il caso a far durare di più una vita rispetto ad un’altra.

 

MARIO

(restò un po’ in silenzio e poi parlò)

Posso chiederle cosa faceva in vita? Cioè sulla terra.

 

GINO

Ero medico, le basta?

 

MARIO

Si certo, ma non si scaldi. Sto solo cercando di capire, sia gentile, si metta nei miei panni.

 

GINO

Con tutto quello che ha fatto nella mia vita, mi sarei aspettato che almeno mi riconoscesse.

 

MARIO

Perché ci conosciamo? Ci siamo incontrati da qualche parte? Sa, mi facevano incontrare così tanta gente e me ne scuso profondamente di non averla riconosciuta.

 

GINO

Non proprio, con lei non ci siamo mai incontrati, avevo conosciuto quello polacco, di lui ho un bel ricordo, ma noi due abbiamo portato avanti le stesse idee in vita.

 

MARIO

A proposito di cosa? Ho fatto tante cose glielo assicuro, pensi che da ragazzino mi hanno anche portato ad un concorso di sosia di Julio Iglesias!

 

GINO

La guerra, Mario, sulla follia della guerra, avevamo le stesse idee. La cosa più stupida che l’essere umano si sia mai inventato e tra l’altro solo qui ho capito da cosa nasce questa immensa idiozia e non lo avrei mai immaginato.

 

MARIO

De dónde viene? (Da cosa nasce?)

Inspiegabilmente a Mario gli scapparono delle parole nella sua lingua d’origine, lo spagnolo.

 

GINO

Dalla noia e non dal denaro come molti immaginano. E’ chiaro che bisogna essere anche molto stupidi per farsi la guerra. E le dico un’altra verità, non esiste mai un cattivo e un buono in guerra, solo degli stupidi. E spesso quando una parte si rende conto di aver sbagliato tutto, decide di non fare marcia indietro per non perdere la faccia ed è proprio lì che la situazione degenera, quando sei nel torto e non lo vuoi ammettere. Capita sempre. Che razza inferiore che siamo, caro Mario.

 

MARIO

Io ho provato a dirlo quando ero dall’altra parte.

“Ogni guerra è una sconfitta. Non si risolve nulla con la guerra. Niente. Tutto si guadagna con la pace, con il dialogo”. Ma è stato come parlare al vento.

 

GINO

Guardi Mario l’ho detto e ripetuto più volte anch’io.

“La guerra non significa altro che l’uccisione di civili, morte e distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra. La guerra non si può “umanizzare” si può solo abolire.”

 

MARIO

La cosa che mi dà più fastidio è essere celebrato oggi da morto e sempre inascoltato da vivo, dalle stesse persone. Li guardi sono tutti lì, che fanno questa recita pietosa.

 

GINO

Non lo dica a me, hanno fatto un simbolo con la mia faccia e non mi ha mai cagato nessuno di quelli che contavano. E mi sa che sono le stesse persone sue.

 

MARIO

E adesso cosa facciamo?

 

GINO

Ma a lei le piace questa specie di centro commerciale? Con tutti questi negozietti che vendono cianfrusaglie religiose e questa musica di sottofondo che sembra la filodiffusione di un ascensore cosmico?

 

MARIO

Direi di no, me l’aspettavo decisamente diverso.

 

GINO

Allora andiamo a pescare. È molto meglio che starsene qui a rimuginare sul senso della vita e a deprimersi con tutte queste luci al neon. Le presto io una canna. Ho un posto perfetto, un vero paradiso per pescatori.

 

MARIO

Bello, mi ricordo quando pescavo col mio papà da piccolo, vicino a Buenos Aires. Che ricordi meravigliosi…

 

E così, senza aggiungere una parola, i due uomini si alzarono e uscirono dalla "Trattoria dell'Altissimo", lasciandosi alle spalle quel luogo stranamente ambiguo e chiassoso.

Si ritrovarono in un prato sconfinato, illuminato da una luce dorata e avvolti da un silenzio surreale. Si tolsero le scarpe e iniziarono a camminare a piedi nudi sull'erba fresca, sentendo la terra vibrare sotto i loro passi.

Non erano più due uomini anziani, ma due bambini che si sorridevano, complici e felici di essersi ritrovati.

Il sole splendeva alto nel cielo, una sfera di luce purissima e abbagliante. Ma a loro non importava. Potevano fissarlo senza timore, potevano lasciarsi scaldare dai suoi raggi guardando dritto in quella palla di fuoco, senza fastidio alcuno ai loro occhi. Fissare il sole era un piccolo privilegio, come un miracolo, una piccola, gioiosa concessione di quel mondo nuovo.

 

 

 

 

 

1 Comment


Unknown member
2 giorni fa

Bellissimo, geniale! Grande Max

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